Crescere
La mia prima casa – Via Cantalupo 28, quartiere San Paolo (1) – quarto piano senza ascensore, è stata la prima casa per tutti. Per mia madre che terza figlia di cinque proveniva da una casa troppo piccola anche per due. Per mio padre che quinto figlio di otto, pur conservando la concezione di spazio condiviso –molto spazio dal momento che la casa dei nonni paterni era disposta su tre piani e molta condivisione al punto che quando a Torino arrivarono anche i suoi fratelli più piccoli per diverso tempo hanno vissuto con noi – per la prima volta aveva una casa per sé. Anche se la casa da sempre, e soprattutto in quel periodo e soprattutto nella mia famiglia, è stato il regno di mia madre. Non solo perché quel ruolo le sarebbe toccato a prescindere, da un punto di vista generazionale, ma principalmente perché mia madre ha privilegiato – per disposizione caratteriale – la cura del “dentro” piuttosto che la conoscenza del “fuori”. Al “fuori” ci pensava papà, ci avremmo pensato io e mia sorella crescendo. E nel dentro c’eravamo noi, la casa. E occuparsi della casa, finché abbiamo vissuto lì, ha significato lavare il bucato a mano, farci fare il bagno nella tinozza scaldando l’acqua calda sul gas, rammendare tutto il rammendabile, cucire vestiti per noi, mettendo in atto la sua arte, appresa nel convento del paese. Ha significato mettere il pranzo con la cena, scegliendo con cura al mercato di Via Di Nanni le cose da comprare. E scegliere allora significava guardare, toccare, contrattare. Sempre. La contrattazione faceva parte del gioco. Anche il risparmio di poche lire rappresentava una vittoria. E utilizzo appositamente questo termine, perché la contrattazione è un trattare con, dove il “con” dà il senso del gioco tra le parti, e dove la discussione ha la prevalenza assoluta sul prezzo reale della merce. Tutto avveniva con pari dignità, con pari rispetto.
“Di solito eri tu che ti occupavi di piazzarci in mezzo alle stanze, al parco, sul balcone di casa. Ferma così, con le braccia lungo il corpo e sorridi. Un pupazzetto felice. Grazie a te resta la testimonianza di ciò che fummo. Si sono accorciate le gonne e le maniche dei maglioncini, ma sono rimasti i corpi, i sorrisi, le buffe espressioni della nostra infanzia. Fino alla foto dove io che sorrido sul divano in salotto, credo una delle ultime. Prima che diventassimo nemiche. Prima che io iniziassi ad allontanarmi dal tuo piccolo mondo, pieno di gesti quotidiani, sempre uguali a se stessi, fatto di divieti (anche se in realtà la voce grossa la facevi tu, ma restavi in attesa del suo ritorno per capire fino in fondo se non fosse arrivato il momento di cambiare direzione), fatto di continui negoziati: puoi uscire se lavi il pavimento, se stiri le camicie, se pulisci le maniglie delle porte con il Sidol. Ma qui no. Qui ancora tu e io eravamo in pace. Una pace apparente fatta di bugie (le mie), di traiettorie effimere dove camminare un passo accanto al tuo, perché non avevo ancora incontrato il mondo. Del mondo conoscevo solo le paure, le tue, la diffidenza, la tua, mentre iniziavo a fare le prove con la mia allegra e spensierata voglia di andare incontro agli altri a braccia aperte, la curiosità di comprendere chi fossi e chi potessi diventare muoveva la mia vita. E la muove tuttora. E quel sorriso mi sorprende ancora.” (2)
1 Via Cantalupo, quartiere San Paolo
https://www.museotorino.it/view/s/98cc4b790881427facbe6c5382a77177
2 Laboratorio di scrittura “Io sono tante/i”, progetto LiberAzioni
Categorie: case, città, scritture, madri