L’adolescenza
La vita è piena di possibilità, opportunità, ma anche di circostanze. La possibilità sta in quel giudizio che i professori della scuola media avevano condensato in poche parole, pur non conoscendomi affatto. Chi eravamo in quegli anni? Ricordo poco. Ricordo il mio professore di italiano, che cercava di porre rimedio alle nostre maldestre capacità di attenzione, in classi troppo gremite, compressa energia che sciamava lungo i corridoi nelle pause che si allungavano sempre oltre misura. Le circostanze ci pongono di fronte alla realtà. Una realtà nella quale il liceo linguistico pubblico era ancora una chimera (venne istituito solo nel 1983) e quindi il ripiego fu l’Istituto Tecnico Commerciale: due lingue, e una buona formazione da spendere in termini lavorativi alla fine del percorso. La scuola superiore fu la prima occasione per uscire dal nido. Un altro quartiere, il percorso a piedi tutte le mattine avvolta nella nebbia del Sangone ritrovando il sole già al capolinea del 71 dove c’era sempre il tempo di mettere la canzone preferita del momento al jukebox del bar. E ritrovarsi tutti vicini nel tragitto fino a scuola.
Pagine adolescenziali
Dicembre 1975. Prima superiore
Durante il percorso formativo anghiarese una delle consegne riguardò il tema del diventare adulto: la prima volta che mi sono sentita adulta, l’ultima volta che non mi sono sentita adulta. Non ebbi un minimo di esitazione ad individuare la prima volta che mi sono sentita adulta. Sola nella cameretta del pronto soccorso del CTO, in seguito ad un incidente avvenuto nella palestra della scuola, uno degli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze di Natale. A ricacciare le lacrime in gola poiché sapevo che di lì a poco sarebbe arrivata mamma, che era sempre prossima al pianto, e dalla quale volevo farmi vedere forte, non sofferente, non così in difficoltà. Ed è stata la prima volta in cui mio padre si è occupato di me.
Triennio 1977/1980
“Non ti riconobbi subito. Io con i miei sedici anni, ancora da compiere, sempre in fondo alla fila dei compleanni, in fondo all’aula, ultimo banco, con le spalle al muro, per non vedere le sgobbone a capo chino. Tu che entrasti carica di libri, con la sigaretta sempre accesa e con quel sorriso che ti inchiodava a prescindere. Con la voce calda, roca, così avvolgente. Non fu amore a prima vista. E di sicuro Petrarca e il dolce stil novo non ci aiutarono. “Sao ko kelle terre” e “la donna mia, quand’ella altrui saluta” volavano sopra la mia testa come gli aeroplanini che i ragazzi lanciavano durante la ricreazione. Non restavano sulla pelle, non ci afferravano lo stomaco. Ma poi arrivò Shakespeare, i suoi monologhi e tu che iniziasti a farceli leggere in classe. E Marco Antonio, Lady Macbeth, Amleto e Desdemona iniziarono a prendere forma, e la mia voce cominciò a prendere corpo, si fece sostanza e tu la intercettasti e la facesti tua. Così ci incontrammo, nei sospesi delle mie tonalità. Tu gli desti colore. E ogni volta mi invitavi a leggere in classe e ogni volta la mia voce si arrotondava nelle orecchie attente dei miei compagni. Così arrivò il teatro nella mia vita, attraverso te. Così entrò la scrittura nella mia vita, insieme a te. Tu con i tuoi incipit spiazzanti, io con i miei doppi voti, perché la grammatica e la sintassi non andavano mai di pari passo con la forza delle parole. E tu mi incoraggiavi, sempre. Ed io non ho mai smesso di crederci. Nemmeno per un istante. Le mie storie ti appartengono, poiché in ognuna ritrovo tracce di te.” (1)
19 luglio 1980
Ultima della classe – sorteggio della lettera L – forse ultima della scuola ad affrontare l’esame orale di maturità, con la materia cambiata qualche giorno prima. La tesina su Giuseppe Berto, il primo giorno del ciclo con due buscopan e tre camomille. Ho dei ricordi vaghi, ovattati, di un tempo dilatato dall’atto del sedersi alle domande che provenivano da bocche diverse. Unica domanda scolpita: per lei è più importante cercare o trovare? Non esitai nemmeno un attimo: “Cercare”. Senza saperlo avevo decretato la mia sentenza, poiché così è stato per il resto della mia vita. “42” il giudizio, come disse papà “sei uscita dalla fessura della serratura”. Una giusta valutazione, anche se forse sarebbe andata meglio se non mi avessero cambiato la materia, o se non avessi avuto il ciclo. In ogni caso piuttosto in linea con l’andamento ondivago della mia voglia di studiare
(1) Laboratorio autobiografico “Io sono tante/i” progetto LiberAzioni
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