Un altro quartiere, un’altra città
Ricordo ancora l’odore di nuovo. Un odore che sapeva di integrità, di semplicità. Le pareti bianche, i pavimenti mai calpestati, i rubinetti mai aperti. Una casa che non è stata mai abitata non ha nessun’altra storia da raccontare se non quella che proviene dal lavoro di chi l’ha costruita, dalla terra sulle quali poggia le sue fondamenta. Una terra che era prato, campagna, al limite sud di una città in espansione. E tutti condividevano la stessa gioia, se pur provenienti da percorsi a volte opposti. Tutti partivano dallo stesso punto, seppure in fabbrica le entrate erano diverse, i ruoli differenti, i capi da ossequiare o da combattere dissimili nella posizione ma ugualmente efficaci nel controllo e nel modo di rapportarsi a chi di dovere. E alla sera entravamo tutti dallo stesso portone: figli di operai, di dirigenti, di impiegati. Il condominio azzerava le differenze, o meglio ci restituiva una corrispondenza umana che il filtro sociale anestetizzava. Non che non si percepisse la diversità – sociale, geografica, economica – solo che il luogo abitativo temperava le schermaglie lavorative e leniva il detto con un infinita sequela di non detti. Questo valeva soprattutto per gli adulti, mentre per noi ragazzi non c’era differenza che potesse tenere, ed era impossibile mantenere le distanze. Così ci ritrovammo a camminare in un periplo di strade dove iniziammo ad esplorare la nostra adolescenza. Era l’autunno del 1973.
Via Riboli 13
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Categorie: case, quartieri