Dis-Umanità
Non riuscivo a credere di essere di nuovo in fila per il tampone. Nonostante il Covid, nonostante il vaccino, risvegliarsi con dolori articolari e febbre ha risintonizzato tutte le frequenze, ampiamente distribuite nel mio cervello da diversi mesi ormai, captanti nuove sintonie e melodie, di nuovo su un’unica lunghezza d’onda. No, mi rifiutavo di credere di aver di nuovo contratto il virus. E così la dottoressa al telefono mi consiglia di scongiurare ogni avversa considerazione e di andare a fare il tampone. Non c’ero mai stata di sabato mattina. E mi colpisce vedere la marea di ragazzine e ragazzini di diverse età, di bambine e bambini avvinghiati, oppure in movimento come pianeti che orbitano attorno allo stesso sole. Così mentre aspetto nella fila dell’accettazione, d’improvviso arriva alle orecchie un pianto. Straziante, testardamente ostinato e perdurante, come a dire “ehi voi non potete far finta di niente, io ci sono e mi faccio sentire”. L’onda d’urto attraversa lo spazio dietro le mie spalle e finalmente la vedo con la sua famiglia. Cammina e piange, ma in realtà è come se urlasse, come se gridasse tutta la sua rabbia. E il padre cerca di consolarla mentre la madre sistema i gemelli nel sedile posteriore. Ma lei persiste e insiste, perchè dovrebbe arrendersi? Perchè dovrebbe reprimere frustrazione e fatica? Così la sua onda mi attraversa e d’improvviso sento salire le lacrime al petto, con un sussulto che faccio fatica a controllare. Tutto questo non ha senso, ha ragione lei, ma da qualche parte dobbiamo cominciare. E mi chiedo quando finirà questo pianto che con disciplina teniamo sotto stretta sorveglianza. Come una vena d’acqua che sentiamo, appoggiando l’orecchio alla terra, come una bolla d’aria che vediamo sotto la lastra di ghiaccio di un inverno che comincia ad arrivare. Quando riusciremo a tirar fuori il nostro pianto smettendo di vomitarci addosso veleni e cattivi pensieri? Quando daremo spazio alle lacrime senza alcuna vergogna, perchè non è della nostra impotenza o fragilità che dobbiamo avere paura, non è il limitare del tempo o dello spazio, non è la frana, consolidata ormai, che si porta via certezze e verità che dobbiamo temere. Non è l’oceano di domande che il covid trasporta con sè che ci deve spaventare. Ma è la risposta. Che tipo di persona voglio diventare in tutto questo? Quali sono le parti di me che decido di far emergere? La bestia cattiva che distrugge, che uccide e divora, che annienta tutto ciò che gli passa accanto? Perchè questo è quello a cui assistiamo quotidianamente: ad atti di violento cannibalismo. In televisione, in famiglia, in strada, in coda all’ufficio o al mercato. Parlando sempre male degli altri, dei lavori degli altri, come se questo potesse ripagare del male subito. Io mi rifiuto di pensare che questa sia la risposta. L’unica risposta possibile porta solo verso la nostra umanità, verso ciò che possiamo ancora fare per gli altri. Per tutti gli altri.
Sposto lo sguardo e vedo l’occhio della tigre che scava un solco nel mio, come se la forza dell’animale raggiungesse le mie ossa sbalzando fuori dai colori acrilici con i quali è stata disegnata sul muro. Forse l’ha visto anche la bambina, perchè d’improvviso ha smesso di piangere. E mentre il padre le fa posto vicino alle sorelle lancia un ultimo sguardo al murales. E nonostante il freddo, nonostante la nebbia e la fila infinita di teste, l’immagine riesce a riprendere posto dentro il cuore di entrambe. E a darci pace. Anche solo per un attimo.
Murales presso l’ex mercato coperto di via Negarville, area attualmente destinata ad Hotspot per tamponi molecolari.