nascere
“Lo sbattere d’un rosso d’uovo mi ha messa al mondo. Il gesto concentrico della mano che afferra il cucchiaio, la rotondità del cucchiaio contro la trasparenza del bicchiere, la rotondità della pancia di mia madre contro il freddo di una camera raso terra, prolungamento del cortile così che le donne che si affacciavano, nuvole di fazzoletti e sguardi, potessero dirsi l’un l’altra “Nasciu?”. Le stesse donne che l’avevano accompagnata sulla gradinata della chiesa, felice correre incontro all’amore, incontro al destino che l’avrebbe catapultata di lì a poche ore in un’altra dimensione, lontano dai passi svelti nei vicoli del paese, dall’odore del fuoco che ti si appiccica addosso, dal vento che sale dal mare rendendo infinita la distanza tra le case ammucchiate sulla collina e la linea che lascia l’onda sulla riva, modulando ogni volta un diverso perimetro tra l’acqua e la terra. Ma era tornata lì a partorire, per ricevere dalle mani, il cui tocco sapeva ancora riconoscere, amore e cura, per ricambiare lo sguardo dei volti delle donne, che cercavano di comprendere quanto fosse cambiata, quanto la città avesse già creato quella distanza che nessun legame riesce più a ricucire. Buchi in una tela ormai lacerata per sempre. Era tornata lì affinchè io potessi udire la sonorità di quelle voci, impastate di sorpresa e allegria nel riconoscere nei miei tratti, nel colore della mia pelle il segno di una ricompensa che nessuna distanza poteva più cancellare. Sarei stata per sempre una figlia di quella terra. E avrei portato come cicatrici, la ferita della distanza, la ferita dell’abbandono, la ferita della nostalgia che non trovano mai riparo.”
Questo l’incipit di una nuova possibile scrittura, il mio primo romanzo, dopo una serie infinita di racconti, poesie, piccole storie piccole. Un romanzo che forse non scriverò mai, perché il tempo è sempre tiranno e le cose che amo fare non ci stanno tutte dentro. Dentro il tempo, dentro la mente, dentro le mani, che un po’ risentono dell’effetto del tempo trascorso e fanno un po’ più fatica a riconoscere il falso dal vero. Un romanzo che sarebbe dovuto partire da lì: dalla mia nascita in una casa di un piccolo paese appoggiato sulle colline dell’entroterra calabrese, affacciato sul mare Jonio. Splendido mare, splendidi luoghi, meravigliosi volti e persone. Il paese natio di mia madre che a vent’anni, dopo le nozze, lasciò senza troppi rimpianti. Così non fu per mio padre che lasciò il suo, là sulle alte colline dell’entroterra lucano, dal quale si era già allontanato durante il servizio militare e che avrebbe portato nel cuore per sempre, fino alla fine dei suoi giorni. Come se la conseguenza di un gesto ribelle avesse inferto una ferita profonda e mortale. Così quella ribellione si è inscritta nel mio codice genetico, insieme al dolore del distacco, della perdita, affinché nel mio sentire ci fosse sempre la presenza di un’assenza, di un rimpianto, di un luogo altro dove poter ritornare nei giorni della fatica.
Dopo aver traballato nella pancia di mia madre, sullo schienale rigido del camion di mio padre, nasco il 19 dicembre del 1961 anticipando il mio venire al mondo di qualche settimana. E nel mio secondo mese di vita intraprendo il mio primo viaggio. Destinazione Torino.
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Categorie: paesi, case, nascite
crescere
La mia prima casa – Via Cantalupo 28, quartiere San Paolo (1) – quarto piano senza ascensore, è stata la prima casa per tutti. Per mia madre che terza figlia di cinque proveniva da una casa troppo piccola anche per due. Per mio padre che quinto figlio di otto, pur conservando la concezione di spazio condiviso –molto spazio dal momento che la casa dei nonni paterni era disposta su tre piani e molta condivisione al punto che quando a Torino arrivarono anche i suoi fratelli più piccoli per diverso tempo hanno vissuto con noi – per la prima volta aveva una casa per sé. Anche se la casa da sempre, e soprattutto in quel periodo e soprattutto nella mia famiglia, è stato il regno di mia madre. Non solo perché quel ruolo le sarebbe toccato a prescindere, da un punto di vista generazionale, ma principalmente perché mia madre ha privilegiato – per disposizione caratteriale – la cura del “dentro” piuttosto che la conoscenza del “fuori”. Al “fuori” ci pensava papà, ci avremmo pensato io e mia sorella crescendo. E nel dentro c’eravamo noi, la casa. E occuparsi della casa, finché abbiamo vissuto lì, ha significato lavare il bucato a mano, farci fare il bagno nella tinozza scaldando l’acqua calda sul gas, rammendare tutto il rammendabile, cucire vestiti per noi, mettendo in atto la sua arte, appresa nel convento del paese. Ha significato mettere il pranzo con la cena, scegliendo con cura al mercato di Via Di Nanni le cose da comprare. E scegliere allora significava guardare, toccare, contrattare. Sempre. La contrattazione faceva parte del gioco. Anche il risparmio di poche lire rappresentava una vittoria. E utilizzo appositamente questo termine, perché la contrattazione è un trattare con, dove il “con” dà il senso del gioco tra le parti, e dove la discussione ha la prevalenza assoluta sul prezzo reale della merce. Tutto avveniva con pari dignità, con pari rispetto.
“Di solito eri tu che ti occupavi di piazzarci in mezzo alle stanze, al parco, sul balcone di casa. Ferma così, con le braccia lungo il corpo e sorridi. Un pupazzetto felice. Grazie a te resta la testimonianza di ciò che fummo. Si sono accorciate le gonne e le maniche dei maglioncini, ma sono rimasti i corpi, i sorrisi, le buffe espressioni della nostra infanzia. Fino alla foto dove io che sorrido sul divano in salotto, credo una delle ultime. Prima che diventassimo nemiche. Prima che io iniziassi ad allontanarmi dal tuo piccolo mondo, pieno di gesti quotidiani, sempre uguali a se stessi, fatto di divieti (anche se in realtà la voce grossa la facevi tu, ma restavi in attesa del suo ritorno per capire fino in fondo se non fosse arrivato il momento di cambiare direzione), fatto di continui negoziati: puoi uscire se lavi il pavimento, se stiri le camicie, se pulisci le maniglie delle porte con il Sidol. Ma qui no. Qui ancora tu e io eravamo in pace. Una pace apparente fatta di bugie (le mie), di traiettorie effimere dove camminare un passo accanto al tuo, perché non avevo ancora incontrato il mondo. Del mondo conoscevo solo le paure, le tue, la diffidenza, la tua, mentre iniziavo a fare le prove con la mia allegra e spensierata voglia di andare incontro agli altri a braccia aperte, la curiosità di comprendere chi fossi e chi potessi diventare muoveva la mia vita. E la muove tuttora. E quel sorriso mi sorprende ancora.” (2)
1 Via Cantalupo, quartiere San Paolo
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2 Laboratorio di scrittura “Io sono tante/i”, progetto LiberAzioni
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Categorie: case, città, scritture, madri
Scuola elementare Santorre di Santarosa, quartiere San Paolo
Piazza Robilant, quartiere San Paolo
Categorie: strade, scuole, giochi
Un altro quartiere, un’altra città
Ricordo ancora l’odore di nuovo. Un odore che sapeva di integrità, di semplicità. Le pareti bianche, i pavimenti mai calpestati, i rubinetti mai aperti. Una casa che non è stata mai abitata non ha nessun’altra storia da raccontare se non quella che proviene dal lavoro di chi l’ha costruita, dalla terra sulle quali poggia le sue fondamenta. Una terra che era prato, campagna, al limite sud di una città in espansione. E tutti condividevano la stessa gioia, se pur provenienti da percorsi a volte opposti. Tutti partivano dallo stesso punto, seppure in fabbrica le entrate erano diverse, i ruoli differenti, i capi da ossequiare o da combattere dissimili nella posizione ma ugualmente efficaci nel controllo e nel modo di rapportarsi a chi di dovere. E alla sera entravamo tutti dallo stesso portone: figli di operai, di dirigenti, di impiegati. Il condominio azzerava le differenze, o meglio ci restituiva una corrispondenza umana che il filtro sociale anestetizzava. Non che non si percepisse la diversità – sociale, geografica, economica – solo che il luogo abitativo temperava le schermaglie lavorative e leniva il detto con un infinita sequela di non detti. Questo valeva soprattutto per gli adulti, mentre per noi ragazzi non c’era differenza che potesse tenere, ed era impossibile mantenere le distanze. Così ci ritrovammo a camminare in un periplo di strade dove iniziammo ad esplorare la nostra adolescenza. Era l’autunno del 1973.
via Riboli 13
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Categorie: case, quartieri
la scuola che non c’è….più
La prima media ha rappresentato un passaggio graduale ma in linea con quanto avvenuto alle elementari. Di nuovo tutte ragazze, il cambio di colore del grembiule da bianco a nero. Se riguardo la foto sbucano a poco a poco le differenze di un’appartenenza femminile che in alcune ancora acerbe, saldamente aggrappate all’infanzia, vedono in altre il marcato delinearsi di protuberanze e movenze. Ricordi vaghi di lavori femminili durante l’ora di applicazione tecnica – ricamo, punto a croce, cartoncino e colla, tanta colla e disegni, squadre, righelli – e una splendida lezione sul bacio condotta dalla nostra compagna di scuola già esperta in materia, l’unica a indossare i collant, che cercava di addestrarci sull’utilizzo della lingua nel duetto sensuale e amoroso con il ragazzo che prima o poi sarebbe toccato in sorte a tutte. Peccato non aver avuto il piacere di continuare la lezione, perché il trasferimento dal quartiere San Paolo a quello di Mirafiori Sud, mi avrebbe catapultato da una scuola di educande, ad una di tutt’altro tenore e livello. Quindi dal grembiule da collegiale, allacciato fino all’ultimo bottone, mi ritrovai d’improvviso in una scuola, con classi rigorosamente miste, dove valeva la legge del più forte e dove le ragazze iniziavano a lasciare scoperte quelle parti del corpo che solleticavano il desiderio dei ragazzi più grandi, esageratamente più grandi perché il triennio delle scuole medie per qualcuno era diventato un quinquennio, posticipando così il momento della scelta: o studi o lavori. Nonostante questo non fu ancora il tempo di mettere in atto la lezione sul bacio.
Ps: è strano che entrambe le scuole non esistano più. La prima negli anni 90 diventa la sede del CSOA Gabrio mentre della seconda non esiste più nessuna traccia poiché è stata rasa al suolo e al suo posto è stato costruito un parcheggio sotterraneo, mentre in superficie è stata creata una piazza alla quale un paio d’anni fa è stato dato il nome di piazza Santi Apostoli.
Categorie: luoghi, scuole
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l’adolescenza
“Rendimento scarso rispetto alle capacità che sarebbero decisamente buone se le sfruttasse a fondo. Intelligenza vivace. Ha buone capacità espressive. Si consigliano studi tecnici e orientamento linguistico”
La vita è piena di possibilità, opportunità, ma anche di circostanze. La possibilità sta in quel giudizio che i professori della scuola media avevano condensato in poche parole, pur non conoscendomi affatto. Chi eravamo in quegli anni? Ricordo poco. Ricordo il mio professore di italiano, che cercava di porre rimedio alle nostre maldestre capacità di attenzione, in classi troppo gremite, compressa energia che sciamava lungo i corridoi nelle pause che si allungavano sempre oltre misura. Le circostanze ci pongono di fronte alla realtà. Una realtà nella quale il liceo linguistico pubblico era ancora una chimera (venne istituito solo nel 1983) e quindi il ripiego fu l’Istituto Tecnico Commerciale: due lingue, e una buona formazione da spendere in termini lavorativi alla fine del percorso. La scuola superiore fu la prima occasione per uscire dal nido. Un altro quartiere, il percorso a piedi tutte le mattine avvolta nella nebbia del Sangone ritrovando il sole già al capolinea del 71 dove c’era sempre il tempo di mettere la canzone preferita del momento al jukebox del bar. E ritrovarsi tutti vicini nel tragitto fino a scuola.
Categorie: scuole, scelte, strade
Pagine adolescenziali
Dicembre 1975. Prima superiore
Durante il percorso formativo anghiarese una delle consegne riguardò il tema del diventare adulto: la prima volta che mi sono sentita adulta, l’ultima volta che non mi sono sentita adulta. Non ebbi un minimo di esitazione ad individuare la prima volta in cui mi sentii adulta. Sola nella cameretta del pronto soccorso del CTO, in seguito ad un incidente avvenuto nella palestra della scuola, uno degli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze di Natale. A ricacciare le lacrime in gola poiché sapevo che di lì a poco sarebbe arrivata mamma, che era sempre prossima al pianto, e dalla quale volevo farmi vedere forte, non sofferente, non così in difficoltà. Ed è stata la prima volta in cui mio padre si è occupato di me.
Triennio 1977/1980
“Non ti riconobbi subito. Io con i miei sedici anni, ancora da compiere, sempre in fondo alla fila dei compleanni, in fondo all’aula, ultimo banco, con le spalle al muro, per non vedere in prima fila le sgobbone a capo chino. Tu che entrasti carica di libri, con la sigaretta sempre accesa e con quel sorriso che ti inchiodava a prescindere. Con la voce calda, roca, così avvolgente. Non fu amore a prima vista. E di sicuro Petrarca e il dolce stil novo non ci aiutarono. “Sao ko kelle terre” e “la donna mia, quand’ella altrui saluta” volavano sopra la mia testa come gli aeroplanini che i ragazzi lanciavano durante la ricreazione. Non restavano sulla pelle, non ci afferravano lo stomaco. Ma poi arrivò Shakespeare, i suoi monologhi e tu che iniziasti a farceli leggere in classe. E Marco Antonio, Lady Macbeth, Amleto e Desdemona iniziarono a prendere forma, e la mia voce cominciò a prendere corpo, si fece sostanza e tu la intercettasti e la facesti tua. Così ci incontrammo, nei sospesi delle mie tonalità. Tu gli desti colore. E ogni volta mi invitavi a leggere in classe e ogni volta la mia voce si arrotondava nelle orecchie attente dei miei compagni. Così arrivò il teatro nella mia vita, attraverso te. Così entrò la scrittura nella mia vita, insieme a te. Tu con i tuoi incipit spiazzanti, io con i miei doppi voti, perché la grammatica e la sintassi non andavano mai di pari passo con la forza delle parole. E tu mi incoraggiavi, sempre. Ed io non ho mai smesso di crederci. Nemmeno per un istante. Le mie storie ti appartengono, poiché in ognuna ritrovo tracce di te.” (1)
19 luglio 1980
Ultima della classe – sorteggio della lettera L – forse ultima della scuola ad affrontare l’esame orale di maturità, con la materia cambiata qualche giorno prima. La tesina su Giuseppe Berto, il primo giorno del ciclo con due buscopan e tre camomille. Ho dei ricordi vaghi, ovattati, di un tempo dilatato dall’atto del sedersi alle domande che provenivano da bocche diverse. Unica domanda scolpita: per lei è più importante cercare o trovare? Non esitai nemmeno un attimo: “Cercare”. Senza saperlo avevo decretato la mia sentenza, poiché così è stato per il resto della mia vita. “42” il giudizio, come disse papà “sei uscita dal buco della serratura”. Una giusta valutazione, anche se forse sarebbe andata meglio se non mi avessero cambiato la materia, o se non avessi avuto il ciclo. In ogni caso piuttosto in linea con l’andamento ondivago della mia voglia di studiare
(1) Laboratorio autobiografico “Io sono tante/i” progetto LiberAzioni
Categorie: luoghi, scuole, teatro, maestre, letture, scritture, nascite